Il concetto di narcisismo
Di Paolo Migone
Il concetto di narcisismo è considerato uno dei più importanti concetti oggi in psicoanalisi, e, paradossalmente, uno dei più controversi. La storia di questo concetto, come vedremo, mostra impietosamente le difficoltà incontrate dal movimento psicoanalitico per arrivare ad una teorizzazione sobria e coerente nell'utilizzare le formulazioni metapsicologiche di volta in volta proposte per rendere conto del dato clinico (in questo caso, in modo specifico, le varie versioni della teoria delle pulsioni e il punto di vista economico). Queste difficoltà erano già presenti nel lavoro di Freud, il quale non a caso più volte si disse insoddisfatto della sua elaborazione teorica del narcisismo, e non esitò a rivederla. Soprattutto, l'evoluzione storica del narcisismo mostra più che mai le difficoltà incontrate dalla psicoanalisi nel perseguire l'ambizioso programma che si era proposta, quello di collegare il piano metapsicologico con quello clinico senza cadere in ambiguità o in facili astrazioni, che si rivelano poi inutili in quanto troppo generiche.
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Prima di procedere nella storia di questo concetto, che riguarderà necessariamente il livello teorico e quindi rischierà di essere arida o difficile, può essere utile partire dal dato clinico, affinché possiamo tenerlo come punto di riferimento durante la discussione successiva. Le nostre disquisizioni teoriche sono sterili se non ci aiutano a comprendere la clinica. A questo proposito, il disturbo della personalità narcisista è diventato molto di moda negli ultimi tempi, e l'uso di questo termine, originariamente diffusosi nella letteratura psicoanalitica, si nota sempre di più anche nel linguaggio comune. Sembra che l'aggettivo "narcisista", assieme a quello di "borderline" (che significa caso "al limite" o "al confine" tra nevrosi e psicosi), a poco a poco abbiano preso il posto dell'aggettivo "isterico", usato per vari decenni anche questo in modo non sempre rigoroso [si vedano le mie rubriche sulle personalità borderline e istrionica sui nn. 55/1990, 56/1991, e 58/1991 del Ruolo Terapeutico]. Quando una parola viene usata per molto tempo, può diventare meno efficace, e alcune parole nuove, forse solo per il fatto stesso di essere nuove, acquistano più forza, come armi non ancora spuntate, forse perché vi è la fantasia che un interlocutore al quale esse non sono familiari venga preso alla sprovvista e sia disposto a dare ragione a chi magicamente le pronuncia; quando anch'esse si saranno diffuse, probabilmente dovranno essere riciclate, e altre parole nuove avranno maggiore fortuna. Ci si accorge a volte che ci lasciamo andare a tacciare un paziente di "narcisismo" solo per il fatto di avere una sintomatologia vaga o di difficile inquadramento diagnostico, oppure non facile da affrontare psicoterapeuticamente, se non addirittura per scaricare la nostra frustrazione o aggressività, proprio come a volte si faceva col termine "isterico".
Il quadro clinico
Per avere un'idea più precisa di cosa si intente per narcisismo in termini descrittivi, è utile vedere i criteri diagnostici del DSM-III-R del 1987 dell'American Psychiatric Association, che sono stati apprezzati anche da vari autori di parte psicoanalitica come sufficientemente precisi. Gli aspetti che maggiormente vengono sottolineati sono soprattutto l'oscillazione dell'autostima e una sensazione di grandiosità (la quale sappiamo, in senso psicodinamico, che può essere concepita come la negazione difensiva di un senso di inferiorità o impotenza), inoltre di conseguenza una eccessiva facilità ad essere feriti da eventuali commenti o giudizi critici, e una difficoltà ad empatizzare con i bisogni degli altri.
In particolare, il DSM-III-R propone nove criteri diagnostici, dei quali almeno cinque devono essere presenti per formulare diagnosi di personalità narcisistica: 1) reazione alle critiche con rabbia, vergogna o umiliazione; 2) tendenza a sfruttare gli altri per i propri interessi; 3) grandiosità, cioè sensazione di essere importanti, anche in modo immeritato; 4) il sentirsi unici o speciali, e compresi solo da certe persone; 5) fantasie di illimitato successo, potere, amore, bellezza, ecc.; 6) sentirsi in diritto di meritare privilegi più degli altri; 7) eccessive richieste di attenzione o ammirazione; 8) mancanza di empatia verso i problemi delle altre persone; 9) persistente invidia (quest'ultimo criterio diagnostico non era presente nel DSM-III del 1980 ed è stato aggiunto nel DSM-III-R).
Con questo quadro di riferimento clinico in mente, vediamo ora la complessa evoluzione storica del concetto di narcisismo.
Evoluzione storica del concetto
Innanzitutto l'origine etimologica del termine: Narciso, secondo la mitologia greca, fu talmente attratto dalla propria bellezza da rispecchiarsi nell'acqua fino a cadervi e annegare; secondo un'altra versione del mito, egli si consumò dal dolore per non poter raggiungere la sua amata immagine riflessa nell'acqua, fino a morirne, e al posto del suo corpo nacque dal suo sangue un fiore, che fu chiamato Narciso.
In psichiatria il termine "narcisismo" fu usato per la prima volta da Havelock Ellis nel 1892 in uno studio psicologico sull'autoerotismo; egli descrisse accuratamente le radici mitologiche e letterarie del mito di Narciso, e per la prima volta adombrava la estensione del termine narcisismo al comportamento non manifestamente sessuale; come sappiamo, questa felice intuizione di scorgere latenti motivi sessuali in comportamenti non esplicitamente sessuali è una delle grandi scoperte della psicoanalisi, e il narcisismo si prestava in modo molto efficace a questo scopo (si pensi anche ad altre perversioni, quali il sadismo, il masochismo, l'esibizionismo, ecc.: ad esempio, il sadismo può rappresentare il bisogno di controllare l'oggetto, cioè la paura di essere abbandonati dalla persona amata). In seguito anche Näcke nel 1899 usò il termine narcisismo per connotare una perversione sessuale, mentre fu Isidor Sadger (l'allievo di Freud che faceva focosi interventi alle riunioni del mercoledì di Vienna) quello che nel 1908 lo fece entrare nella terminologia psicoanalitica. Freud usò per la prima volta questo termine in una riunione del 10-11-1909 della Società Psicoanalitica di Vienna [Nunberg H. & Federn E., a cura di,Dibattiti della Società Psicoanalitica di Vienna, 1906-1908. Torino: Boringhieri, 1973], accreditando chiaramente a Sadger l'introduzione del concetto in un suo lavoro che fu pubblicato più tardi, nel 1910. Otto Rank nel 1911, con il primo scritto dedicato specificamente al narcisismo, per la prima volta lo collegò non implicitamente, ma esplicitamente, a fenomeni non sessuali, come la vanità e l'autoammirazione: disse inoltre che "amare il proprio corpo è un importante fattore della normale vanità femminile" (anticipando dunque di molti anni il concetto di "narcisismo sano" di Kohut), e intravide anche per la prima volta una possibile natura difensiva del narcisismo, come nel caso di quelle donne che "si rifugiano nell'amore di sé ferite a causa di uomini cattivi e incapaci di amare" (vediamo qui già il concetto di "ritiro narcisistico" causato di ferite oggettuali, cioè il chiudersi in se stessi per frustrazioni nei rapporti interpersonali, tematica che verrà ripresa e meglio teorizzata da Freud).
Ma fu l'importante lavoro di Freud del 1914 Introduzione al narcisismo quello che segnò per così dire la nascita ufficiale di questo concetto in psicoanalisi. Da allora in poi, la sua storia appartenne prevalentemente al movimento psicoanalitico, e solo negli anni recenti, e precisamente col DSM-III del 1980, la personalità narcisista è entrata a far parte ufficialmente della diagnostica psichiatrica. Prima di vedere l'evoluzione del pensiero di Freud in maggiore dettaglio (che verrà affrontato nella prossima rubrica [vedi più avanti]), voglio fare però una breve panoramica dei contributi di alcuni tra i principali autori fino ai giorni nostri.
Alcuni degli storici contributi psicoanalitici che vanno menzionati sono quelli di Karl Abraham [Una forma particolare di resistenza nevrotica al metodo psicoanalitico (1919). In Abraham Opere, vol. II, pp. 494-501. Torino: Boringhieri, 1975], che individuò le resistenze transferali nel trattamento di questi pazienti, e di Ernest Jones [The God complex. In: Essays in Applied Psychoanalysis, vol. 2, pp. 244-265. London: Hogarth Press, 1951], che per la prima volta descrisse i tratti della personalità narcisista, mentre tra i lavori pubblicati negli Stati Uniti vanno ricordati soprattutto due articoli della Annie Reich del 1953 e del 1960, e il libro della Edith Jacobson del 1964 Il Sé e il mondo oggettuale [Firenze: Martinelli, 1974]. Gli autori più recenti che hanno studiato i disturbi della personalità narcisista sono in Inghilterra Herbert Rosenfeld [Stati psicotici (1965), Roma: Armando, 1973; Comunicazione e interpretazione (1987), Torino: Boringhieri, 1989, pp. 55-154], che elaborò le importanti intuizioni di Melanie Klein contenute nel libro del 1957 Invidia e gratitudine [Firenze: Martinelli, 1969], e in Francia Béla Grunberger col libro del 1971 Il narcisismo [Bari: Laterza, 1977]; negli Stati Uniti invece sono stati Otto Kernberg [Sindromi marginali e narcisismo patologico (1975). Torino: Boringhieri, 1978; Disturbi gravi della personalità (1984). Torino: Boringhieri, 1988] e soprattutto Heinz Kohut [Narcisismo e analisi del Sé (1971), La guarigione del Sé (1977), e La cura psicoanalitica (1984), tutti tradotti da Boringhieri] coloro che hanno dato i principali contributi allo studio di questo disturbo.
Per comprendere come mai la personalità narcisista acquistò una tale importanza sulla scena psichiatrica da essere inclusa nel 1980 nel DSM-III dall'American Psychiatric Association, occorre conoscere e comprendere alcuni sviluppi avvenuti sia in campo sociale che psicoanalitico. Per quanto riguarda i primi, si pensi solamente al famoso libro del 1978 di Christopher Lasch La cultura del narcisismo [Milano: Bompiani, 1981], cultura che caratterizzerebbe l'era del benessere delle società avanzate, in cui la crisi dei valori e altre complesse trasformazioni sociali avrebbero letteralmente stravolto il significato dell'esistenza dell'uomo facendolo per così dire "ripiegare su se stesso": è ormai un luogo comune dei mass media definire le ultime decadi di questo secolo come "l'era del narcisismo".
Per quanto riguarda invece gli sviluppi avvenuti in psicoanalisi, essi sono per noi più interessanti perché sicuramente sono stati determinanti nel conferire importanza a questa diagnosi e a diffonderne l'uso negli ambienti professionali fino al punto da farne un termine alla moda se non addirittura un cliché psicoanalitico. E' stato probabilmente il già citato Kohut l'autore che ha contribuito in modo decisivo a stimolare l'interesse attorno al disturbo della personalità narcisista: autorevole analista di Chicago, e già vice presidente dell'International Psychoanalytic Association, Kohut ha ispirato un grosso movimento all'interno della psicoanalisi definito "Psicologia del Sé", in aperto contrasto con la corrente psicoanalitica tradizionale nota come "Psicologia dell'Io". Il movimento kohutiano, che secondo alcuni rappresenta la più potente corrente di dissidenza all'interno della psicoanalisi contemporanea (come vedremo meglio nella rubrica del numero seguente del Ruolo Terapeutico [vedi più avanti]), ha posto al centro della teorizzazione il concetto più esperienziale fenomenico di Self (il Sé, contrapposto a quello di Io, più impersonale ed astratto), ha fatto leva su certe debolezze della tecnica interpretativa classica riproponendo l'importanza di fattori quali l'"empatia", ha posto vari interrogativi sulla concezione tradizionale dei fattori terapeutici della psicoanalisi, e così via. La sua influenza sul movimento psicoanalitico è stata così grande che, al culmine del successo e della espansione del movimento della Psicologia del Sé, alcuni addirittura hanno affermato che Kohut sta a Freud come Einstein sta a Newton, nel senso del discepolo che ha trasformato la teoria del maestro. Pare comunque che, dopo circa due decenni dalla nascita di questo movimento, esso non è riuscito a sviluppare tutte le sue potenzialità rivoluzionarie come avevano sperato i suoi seguaci, ed è rimasto un movimento minoritario, seppur importante e foriero di molti stimoli sia clinici che teorici per gli analisti di tutti gli orientamenti.
Si può dire quindi che il DSM-III decise di assegnare alla personalità narcisista l'importanza di una diagnosi a sé stante di fronte alla crescente mole di studi attorno a questo problema soprattutto in campo psicoanalitico e psicoterapeutico. Se da una parte ciò rappresentò un riconoscimento di alcune acquisizioni della psicoanalisi da parte del mondo psichiatrico, dall'altra vi fu chi, anche da parte psicoanalitica, criticò questa scelta, per il fatto che legava troppo il DSM-III alle mode culturali del momento; si può ricordare qui, aneddoticamente, che al Congresso dell'American Psychiatric Association di Toronto del 1982, quando in un importante dibattito i fautori del DSM-III si scontrarono con gli oppositori [vedi Psicoterapia e Scienze Umane, 4/1983, p. 75, per una trascrizione in anteprima di quel dibattito], Vaillant accusò Spitzer e gli altri membri della Task Force del DSM-III di "campanilismo" poiché avevano incluso nel manuale certi disturbi di personalità, come appunto quella narcisista, le quali, "nate solamente 10-20 anni fa, notoriamente sono state viste solo nelle città americane dotate di teatri d'opera e istituti psicoanalitici, e sono sconosciute in Iowa e Alabama, o a Tangeri e Bucarest".
Termino qui questa breve panoramica storica del concetto di narcisismo. Vedremo meglio, nella mia rubrica del prossimo numero del Ruolo Terapeutico (n. 64/1993 [vedi più avanti]), l'evoluzione del pensiero di Freud, tanto complessa quanto importante per capire questo concetto, e l'interpretazione psicodinamica della personalità narcisista fatta da due tra i principali autori che hanno approfondito questo quadro clinico, rispettivamente Kohut e Kernberg, il cui confronto teorico su questa patologia rappresenta oggi uno dei problemi aperti più interessanti nel dibattito psicoanalitico.
Seconda parte (Il Ruolo Terapeutico, 1993, 64: 32-36)
Continuo con la seconda parte della trattazione del concetto di narcisismo, iniziata nella mia rubrica precedente del Ruolo Terapeutico (n. 63/1993 [vedi prima parte]) dove avevo trattato gli aspetti descrittivi e storici. In questa seconda parte parlerò degli aspetti psicodinamici, prima seguendo la complessa evoluzione del concetto di narcisismo nel pensiero di Freud, e poi accennando a Kohut e Kernberg, due autori che hanno caratterizzato il dibattito contemporaneo sull'argomento.
Il pensiero di Freud
Nel pensiero freudiano, il concetto di narcisismo fu sempre legato al punto di vista economico della teoria delle pulsioni, il che purtroppo si rivelò un ostacolo a una comprensione di tutte le sfaccettature cliniche del termine. Per comprendere bene questa problematica, occorre ripercorrere brevemente la storia delle varie fasi della teoria delle pulsioni secondo Freud [per un approfondimento, vedi il classico di E. Bibring del 1936 su Psicoterapia e Scienze Umane in due parti, 1990/2: 96-108, e 1990/3: 103-122; e inoltre H. Nagera (1969), I concetti fondamentali della psicoanalisi. Vol. 1: Pulsioni e teoria della libido, Boringhieri, 1972, pp. 26-38].
Originariamente Freud non parlò chiaramente di pulsioni, ma di affetti, cioè possiamo dire che all'inizio egli si mosse all'interno di una teoria degli affetti, i quali andavano difesi l'uno dall'altro (si ricordi che la parola "affetti" è una traduzione letterale dal tedesco e dall'inglese, dove significano "emozioni", "stati dell'umore", quindi in psicoanalisi ha un significato ben diverso da quello della lingua italiana). Allora Freud credeva ancora nella teoria della seduzione, e riteneva che un trauma sessuale esterno facesse insorgere un eccitamento sessuale a causa di una irritazione degli organi genitali: il conflitto nevrotico si originava per l'insorgere di desideri o rappresentazioni "incompatibili", inaccettabili all'Io, che li rimuoveva. L'organismo infatti secondo Freud era governato dalla tendenza a mantenere l'eccitamento al più basso livello possibile per evitare tensioni sgradevoli (un "principio di inerzia neuronica" [S. Freud, "Progetto di una psicologia" (1895), Opere di Sigmund Freud, 2: 195-284], per mantenersi privo di stimoli). Era il conflitto tra l'Io e tali rappresentazioni "incompatibili" quello che generava i sintomi sotto forma di compromesso. Più tardi, e molto chiaramente dopo l'abbandono della teoria della seduzione (quando cioè Freud si accorse che molti fatti traumatici e seduzioni non erano in realtà avvenuti, ma erano frutto della "fantasia" delle sue pazienti), necessariamente i traumi reali esterni persero di importanza nella genesi del conflitto nevrotico, e acquistarono importanza le fantasie, che venivano considerate come derivate appunto da "pulsioni" interne [vedi anche L. Friedman, L'anatomia della psicoterapia (1988), Bollati Boringhieri, 1993, cap. 15]. Nacque così, assieme al complesso edipico, la psicoanalisi vera e propria, segnata dall'importanza della teoria delle pulsioni.
In questo primo periodo venne reso esplicito il dualismo tra "pulsioni sessuali" e "pulsioni dell'Io", che inizialmente era solo implicito. Questa distinzione era dovuta ai biologi, e Freud la accettò. Essa presupponeva due tipi di pulsioni: le pulsioni di autoconservazione (o dell'Io) miranti alla preservazione dell'individuo (ad esempio la fame), e quelle sessuali per la conservazione della specie (ad esempio l'istinto sessuale). E' importante ricordare questa iniziale ipotesi di Freud sulla esistenza di due tipi diversi di pulsioni, perché vi torneremo a proposito della revisione teorica operata da Kohut molti decenni dopo col suo primo libro, quello del 1971 (ma non solo, possiamo anche dire che questa iniziale concezione di Freud su una maggiore diversificazione delle pulsioni, implicante cioè che non tutte le spinte motivazionali dipendono dalla libido o dalla aggressività, è interessante perché in un certo qual modo anticipa la revisione della teoria della motivazione oggi operata sia dai cognitivisti che dagli psicoanalisti ricercatori infantili, come Stern, Lichtenberg, ecc.). Secondo Freud ["Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni)". Lezione 32: Angoscia e vita pulsionale (1932). Opere di Sigmund Freud, 11: 191-218], in questa fase, le pulsioni dell'Io erano quelle che limitavano e rimuovevano, e le pulsioni sessuali quelle che venivano limitate o rimosse, cioè le due pulsioni erano in conflitto tra loro. I problemi con questa prima teoria duale delle pulsioni incominciarono a sorgere appunto quando Freud affrontò il problema del narcisismo.
A questo proposito bisogna fare una breve parentesi e ricordare che Freud aveva postulato diverse fasi dello sviluppo della pulsione sessuale, da lui chiamata anche "libido". Questa secondo Freud all'origine sarebbe autoerotica, cioè senza oggetto, in cui ogni pulsione parziale cerca soddisfacimento su parti del corpo (le zone "erogene" orale, anale, genitale). In seguito la pulsione diventa alloerotica, cioè con scelta oggettuale. Ma ad un certo punto Freud (1911) postula una fase intermedia tra le due, detta narcisistica, in cui il soggetto unifica le sue pulsioni sessuali parziali (fino ad allora autoerotiche) e prende se stesso come primo oggetto d'amore (ciò implica che nella successiva scelta oggettuale l'individuo sceglie, in via transitoria, un oggetto omosessuale, cioè con gli stessi genitali che ha amato, per poi passare alla definitiva scelta eterosessuale). Freud postula anche che, dopo la fase di investimento oggettuale, la libido può essere nuovamente ritirata sugli oggetti, in una fase che chiama "narcisismo secondario" (e ridefinisce quindi "narcisismo primario" il narcisismo prima descritto, di investimento sul soggetto).
Ricapitolando quindi gli stadi libidici, si hanno quattro fasi: 1) autoerotismo, 2) narcisismo primario, 3) amore oggettuale (prima omosessuale, poi eterosessuale), 4) narcisismo secondario.
Ecco dunque il punto che aprì dei problemi nella prima teoria delle pulsioni di Freud: se nella fase di narcisismo primario il soggetto ama se stesso (per poi nella fase successiva rivolgere la libido agli oggetti), diventa difficile distinguere in questa fase tra pulsioni dell'Io e sessuali, in quanto entrambe rivolte all'Io (si ricordi che Freud non faceva distinzione tra Io e Sé). Freud in questa fase volle comunque mantenere questa dualità delle pulsioni, spostando però la dicotomia, che venne ora riferita non tanto alla fonte quanto alla direzione della pulsione: concepì cioè due tipi di libido, quella narcisistica (rivolta all'Io) e quella oggettuale (rivolta agli oggetti, cioè alle altre persone). Voglio riportare per intero alcuni passaggi tratti da Introduzione al narcisismo del 1914 [Opere di Sigmund Freud, 7: 441-472], in cui si vede, a volte in complessi e oscuri passaggi, quali sforzi facesse per arrivare a costruire una soddisfacente teoria della motivazione. Freud disse che
Il narcisismo non sarebbe una perversione, bensì il complemento libidico dell'egoismo della pulsione di autoconservazione, una componente del quale è legittimamente attribuita ad ogni essere vivente. (·) Ci formiamo così il concetto di un investimento libidico originario dell'Io di cui una parte è ceduta in seguito agli oggetti, ma che in sostanza persiste e ha con gli investimenti d'oggetto la stessa relazione che il corpo di un organismo ameboide ha con gli pseudopodi che emette. (...) Grosso modo, osserviamo anche una contrapposizione tra libido dell'Io e libido oggettuale. Quanto più si impiega l'una, tanto più si depaupera l'altra. (...) Infine, per ciò che attiene alla differenziazione delle energie psichiche, siamo indotti a concludere che inizialmente, durante lo stadio narcisistico, esse coesistono e la nostra approssimativa analisi non riesce a far distinzione tra esse; solo quando avviene l'investimento d'oggetto diventa possibile discriminare un'energia sessuale - la libido - da un'energia delle pulsioni dell'Io.
(...): se attribuiamo all'Io un investimento libidico primario, che bisogno c'è di separare ancora una libido sessuale da un'energia non sessuale delle pulsioni dell'Io? Se postulassimo l'esistenza di un'unica energia psichica non ci risparmieremmo tutte le difficoltà di discernere fra energia delle pulsioni dell'Io e libido dell'Io, e fra libido dell'Io e libido oggettuale?
(...) La differenza della libido in una libido che pertiene all'Io e in una libido che è vincolata agli oggetti risulta come un corollario inevitabile dell'antica ipotesi che istituì la distinzione tra pulsioni sessuali e pulsioni dell'Io. (...)
Proprio perché in genere mi sforzo di tener lontano dalla psicologia tutto ciò che è estraneo alla sua natura, incluso il pensiero biologico, desidero a questo punto ammettere espressamente che l'ipotesi di una separazione fra pulsioni sessuali e pulsioni dell'Io - e cioè la teoria della libido - non poggia che in misura minima su basi psicologiche e ha invece nella biologia il suo supporto essenziale. Sarò quindi coerente abbastanza da lasciar cadere questa ipotesi sulle pulsioni nel caso in cui il lavoro psicoanalitico me ne indicasse una migliore. Ciò, finora, non è accaduto. Può darsi, dunque, che l'energia sessuale - cioè la libido - sia in ultima analisi e alla fin fine solo il prodotto di una differenziazione dell'energia che opera altrimenti nella psiche. Ma questa affermazione è priva di rilievo [Freud, 1914, pp. 444-449].
Come fa notare Nagera [cit., p. 37], nonostante una certa oscurità della distinzione tra pulsioni sessuali e pulsioni dell'Io, Freud in questa fase non se la sentiva di abbandonarla, anche perché si confaceva con le ipotesi biologiche dell'epoca, e anche con il senso comune che vuole differenziare per esempio tra l'istinto sessuale e la fame. Quello che è importante comunque è che Freud qui introdusse, con la famosa metafora dell'ameba e dei suoi pseudopodi, la differenziazione tra libido dell'Io e libido oggettuale: fu proprio questa concettualizzazione che, seppur basata sulla acuta osservazione di alcuni fenomeni clinici, doveva poi rivelarsi inadeguata per l'esageratamente ampia estensione che il termine "narcisismo" doveva assumere, e pesare molto sulla sua specificità. Infatti si postula che la libido nel narcisismo primario (quello che sta tra l'autoerotismo e l'amore oggettuale) viene investita sul soggetto, poi in una fase successiva sugli oggetti; ma in determinate condizioni, nel cosiddetto narcisismo secondario, dagli oggetti può essere ritirata sull'Io. Un tipico esempio, a noi clinicamente molto familiare, è il caso del "ritiro narcisistico", col quale il paziente, dopo un trauma emotivo o una ferita (detta appunto "narcisistica") si chiude in se stesso allontanandosi dagli altri, senza più voglia di interagire con loro (proprio come un'ameba che ritira i suoi pseudopodi). Ma questa è solo una delle molte condizioni "narcisistiche", che possono comprendere regressioni sia fisiologiche che patologiche, e una svariata serie di fenomeni clinici: sonno, autismo, schizofrenia, megalomania, paranoia, ipocondria, credenze magiche, animismo, onnipotenza del pensiero, malattie organiche, innamoramento, certi tipi di omosessualità o di altre perversioni, persino vanità, autoammirazione, autostima, "sentimento oceanico", e così via. In tutti questi casi la libido "si ritirerebbe dagli oggetti", ed avendo ciò una implicazione economica, vi sarebbe un effetto come di vasi comunicanti: più diminuiscono gli investimenti sugli oggetti, più possono aumentare i suddetti fenomeni narcisistici. Ovviamente sappiamo che ciò non è vero per alcuni fenomeni clinici: in altre parole, se si può essere d'accordo che quando abbiamo il mal di denti amiamo meno mostra moglie perché siamo presi dal dolore che ci affligge, oppure che quando dormiamo ci distacchiamo dal mondo esterno, è dimostrato che spesso sono proprio coloro che hanno una buona autostima quelli che amano di più gli altri e investono maggiormente negli oggetti esterni (hanno successo, traggono soddisfazione dal loro lavoro, ecc.). Troppi dunque appaiono essere i significati clinici di narcisismo da rendere utile questo termine se lo si lega strettamente alla teoria delle pulsioni e al punto di vista economico.
Cercando di riassumere quanto detto fin qui, e sintetizzando le altre osservazioni in questo scritto del 1914 sul narcisismo, Freud ha aggiunto i significati del termine relativi a tre fenomeni: A) il tipo di scelta oggettuale, B) un modo di relazione oggettuale, e C) l'autostima. In breve:
A) il tipo di scelta oggettuale: Freud scrisse che
L'essere umano può amare
1) secondo il tipo narcisistico [di scelta oggettuale]: a) quel che egli stesso è (cioè se stesso); b) quel che egli stesso era; c) quel che egli stesso vorrebbe essere; d) la persona che fu una parte del proprio sé.
2) secondo il tipo [di scelta oggettuale] per appoggio: a) la donna nutrice; b) l'uomo protettivo (Freud, 1914, p. 460).
B) un modo di relazione oggettuale: narcisismo vuol dire ritiro dagli oggetti, come nella schizofrenia o nell'autismo.
C) autostima: anche se questo aspetto fu toccato da Freud solo marginalmente, è divenuto oggi il significato prevalente di narcisismo. A questo proposito, bisogna segnalare la proposta di Joffe & Sandler del 1967 ["Alcuni problemi concettuali riguardanti i disturbi narcisistici", in Sandler J. et al., La ricerca in psicoanalisi, vol 1. Boringhieri, 1980, cap. 11, pp. 184-196] che cercano di risolvere queste difficoltà concettuali mantenendo per il narcisismo il significato di autostima, ma eliminando le implicazioni pulsionali, e proponendo una concettualizzazione in termini di stato ideale dell'Io.
Ricapitolando e semplificando dunque [per una discussione più approfondita del concetto di narcisismo, vedi lo scritto di S. Pulver del 1970 "Narcisismo: il termine e il concetto", in Psicoterapia e Scienze Umane, 1980, 2: 42-60], Freud in Introduzione al narcisismo, che è uno dei suoi più importanti contributi teorici, utilizzò il termine "narcisismo" per almeno quattro situazioni diverse: 1) una perversione sessuale; 2) uno stadio del normale sviluppo della "libido", cioè della sessualità (la sessualità e l'aggressività - rispettivamente Eros e Thanatos - furono concepite da Freud come le due pulsioni fondamentali dell'essere umano); 3) una caratteristica della schizofrenia, nella quale la libido verrebbe ritirata dal mondo esterno e investita sul soggetto; 4) un tipo di scelta dell'oggetto d'amore, nella quale l'oggetto verrebbe scelto in quanto rappresenta quello che il soggetto era o vorrebbe essere (si ricordi che "oggetto" nel linguaggio psicoanalitico equivale a "persona").
Già da queste diverse definizioni è possibile intravvedere la complessità, per non dire la confusione, che circondò questo concetto negli anni successivi, e che per certi versi permane tuttora. Più problematica di tutte forse fu l'equiparazione tra narcisismo e schizofrenia: secondo questa primitiva concezione freudiana, nella nevrosi la libido verrebbe investita sugli oggetti, mentre nelle psicosi schizofreniche (da Freud chiamate appunto "nevrosi narcisistiche") la libido verrebbe investita sul soggetto, depauperando così gli oggetti di investimento libidico, come accadrebbe ad esempio nell'autismo. Come ho accennato prima, questa concezione della libido che si distribuirebbe in "vasi comunicanti" si rivelò poi non reggere al confronto con la clinica, poiché non rendeva conto della possibilità di poter investire nel mondo esterno (amare, avere successo, ecc.) e contemporaneamente mantenere una buona autostima. Come vedremo, il primo Kohut [Narcisismo e analisi del Sé (1971). Boringhieri, 1976] tentò di risolvere questo problema teorico postulando l'esistenza di due "linee di sviluppo" della libido, rispettivamente di libido oggettuale e di libido narcisistica, non più strettamente collegate tra loro come vasi comunicanti ma indipendenti l'una dall'altra. Come ho detto prima, è interessante questa operazione fatta da Kohut nel suo primo libro del 1971, in quanto per certi versi sembra che proponga un ritorno alla prima fase della teoria delle pulsioni di Freud, quella che proponeva una dualità di pulsioni sessuali e di autoconservazione (o dell'Io). Ma Kohut, nei suoi contributi successivi [La guarigione del Sé (1977), Boringhieri, 1980, e La cura psicoanalitica (1984). Boringhieri, 1986], modificò le sue concezioni allontanandosi ulteriormente dall'ortodossia freudiana, e affermando che esiste una sola libido, quella "narcisistica", che grazie a rapporti empatici con le figure genitoriali (definiti "oggetti-Sé") trasformerebbe il Sé in forme meno arcaiche e via via più mature.
Il pensiero di Kohut
Ma vediamo brevemente come Heinz Kohut concepisce la psicodinamica dei disturbi narcisistici. Kohut [1971, cit.] incominciò col notare due particolari tipi di transfert nei pazienti narcisistici, che chiamò transfert "speculare" e transfert "idealizzante". Nel primo il paziente esprimerebbe il bisogno di essere ammirato e "rispecchiato" dal terapeuta, mentre nel secondo esprimerebbe il bisogno complementare di idealizzare e ammirare il terapeuta stesso. Egli poi postulò che il compito del terapeuta non è quello di frustrare questi bisogni, magari interpretandoli come difese, ma quello di accettarli in quanto tali e di corrispondere empaticamente ad essi per permettere al Sé di svilupparsi. Infatti secondo Kohut la genesi dei disturbi narcisistici va ricercata in un atteggiamento "poco empatico" da parte dei genitori che ha provocato l'arresto dello sviluppo a un "Sé grandioso arcaico", del quale appunto i due tipi di transfert prima menzionati sarebbero la riattivazione nel transfert. E' solo quindi permettendo al paziente di ripercorrere queste tappe evolutive attraverso un rapporto empatico col terapeuta, il quale ammira il paziente e permette a sua volta di farsi ammirare da lui, che il paziente riesce gradualmente a mitigare o modificare il suo Sé grandioso attraverso quelle che Kohut chiama "internalizzazioni trasmutanti".
Già da questi pochi accenni si può intravedere la radicale diversità della teoria kohutiana da quella freudiana classica. Kohut concepisce il Sé come qualcosa che dipende dall'ambiente, che può farlo crescere o arrestare a seconda di determinate proprie caratteristiche (come l'empatia dei genitori); il conflitto è quindi tra il Sé e gli oggetti, e non è intrapsichico, come vuole la teoria classica che postula una conflittualità tra Io, Es e Super-Io (in questo senso si può dire che Kohut appartenga alla scuola della "teoria delle relazioni oggettuali", secondo la quale l'ambiente ha una grossa responsabilità nella costituzione del soggetto). Il Sé di Kohut quindi è un'entità priva di conflitto in se stessa, che appartiene ad un livello di astrazione completamente diverso da quello della struttura tripartita Io/Es/Super-Io, poiché non viene concepito come una funzione dell'Io secondo la definizione di Hartmann [Considerazioni sulla teoria psicoanalitica dell'Io (1950). In: Saggi sulla Psicologia dell'Io. Boringhieri, 1976, cap. 7, p. 143], il quale suggerì una accezione ristretta del Sé come "rappresentazione del Sé", cioè della persona, da parte dell'Io.
Queste concezioni hanno profonde implicazioni. Infatti, il concetto di conflittualità intrapsichica, che è centrale in psicoanalisi, è strettamente legato a quello delle pulsioni, cioè all'Es, le quali appunto entrano in conflitto con altre strutture psichiche, come ad esempio il Super-Io. Ed è per questo che Kohut coerentemente nega l'esistenza autonoma delle pulsioni, e afferma che le loro manifestazioni (aggressività, sessualità, il complesso di Edipo, e così via fino a comprendere lo stesso conflitto intrapsichico) sono già di per sé dei "prodotti di disintegrazione" della libido narcisistica nel momento in cui il soggetto (il Sé) entra in un rapporto non empatico o frustrante con le figure parentali (gli oggetti).
Non è possibile in questa sede procedere oltre nella disamina teorica del concetto di narcisismo secondo Kohut. Basti ricordare che secondo molti autori Kohut non è riuscito a fondare un sistema teorico coerente e realmente alternativo a quello della psicoanalisi classica, e che la sua posizione, per la implicita negazione della centralità del conflitto intrapsichico, rischia di rappresentare un ritorno a psicologie pre-psicanalitiche come quelle di Janet e Charcot [vedi M. Eagle (1984), La psicoanalisi contemporanea. Laterza, 1988, cap. 5, 6, e 12; M. Eagle, "Cambiamenti clinici e teorici in psicoanalisi: dai conflitti ai deficit e dai desideri ai bisogni", Psicoterapia e Scienze Umane, 1990, 1: 33-46; per una discussione del concetto di Sé, vedi G. Jervis, "Significato e malintesi del concetto di 'Sé'", in M. Ammaniti (a cura di), La nascita del Sé. Laterza, 1989]. Nonostante queste riserve, quasi tutti però sono altrettanto concordi nel ritenere che molte intuizioni cliniche di Kohut costituiscono un notevole progresso nella nostra comprensione della terapia del narcisismo e dei disturbi gravi di personalità in generale.
Il pensiero di Kernberg
Otto Kernberg [Sindromi marginali e narcisismo patologico (1975), Boringhieri, 1978; Disturbi gravi della personalità (1984), Bollati Boringhieri, 1988, cap. 11-14; ecc.], dal canto suo, concepisce invece la personalità narcisista in modo più tradizionale. Egli, anche se è d'accordo nel ritenere che la patologia si incentri attorno a un disturbo della regolazione dell'autostima e alla persistenza di un Sé grandioso, non ritiene che questo sia la riattivazione di una fase dello sviluppo infantile normale, ma patologico. Infatti, dove Kohut parla di "Sé grandioso arcaico", Kernberg non a caso parla di "Sé grandioso patologico", per cui ne consegue che in terapia esso non deve essere favorito o lasciato crescere, ma deve essere interpretato nelle difese caratteriali narcisistiche. Per fare un esempio, una eccessiva idealizzazione del terapeuta potrebbe non essere, come vuole Kohut, un sentimento "normale", ma la difesa da una aggressività contro di lui e/o dalla proiezione di questa che genera poi una paura di lui (risultante quindi da una conflittualità intrapsichica). Per Kernberg (il quale tra l'altro, non si dimentichi, seguendo Hartmann [1950, cit.] concepisce il Sé come "rappresentazione del Sé", cioè come una funzione dell'Io, e non come una entità sovraordinata e autonoma) il futuro narcisista, attorno ai 3-5 anni, invece di integrare realisticamente le immagini buone e cattive del Sé e dell'oggetto in rappresentazioni coerenti e stabili, mette insieme le rappresentazioni positive ed idealizzate (sia del Sé che dell'oggetto) formando conseguentemente un Sé grandioso patologico, cioè un'idea irrealistica e idealizzata di sé, la quale ovviamente è fragilmente mantenuta per cui il paziente ha sempre bisogno di rinforzi esterni per la sua autostima ed è soggetto a continue disillusioni. Quello che favorisce (ma non determina, come vorrebbe Kohut) la formazione di questo Sé grandioso patologico è l'atteggiamento di genitori freddi, distaccati, ma nel contempo pieni di esagerate ammirazioni e aspettative dal bambino. La vera possibile causa della formazione di questo Sé grandioso patologico è, secondo Kernberg, una eccessiva pulsione aggressiva, che impedirebbe alle rappresentazioni positive di integrarsi normalmente con quelle negative, portando così alla formazione di immagini scisse, eccessivamente idealizzate e grandiose, o eccessivamente negative. La psicodinamica a questo livello è molto simile a quella della personalità borderline, che secondo Kernberg appunto ha una genesi qualitativamente simile a quella narcisista, e la cui organizzazione intrapsichica è simile in molti disturbi di personalità (rimando quindi alle mie rubriche sul disturbo borderline nei numeri 55/1990 e 56/1991 del Ruolo Terapeutico, e al manuale di tecnica psicoterapeutica per i borderline di Clarkin, Yeomans & Kernberg, 1999).
- di Paolo Migone
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