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Il declino cognitivo

psicologia, psicoterapia, psichiatria, attacchi di panico, fobie, disturbi umore

Il declino cognitivo

E' diffusa l'opinione che l'invecchiamento si accompagni inesorabilmente alla perdita di numerose funzioni sia fisiche che mentali. Col trascorrere degli anni udito, vista, memoria, intelligenza, agilità, equilibrio e così via subirebbero un declino inevitabile.
Il deterioramento delle capacità mentali - che la nostra cultura obsoleta continua a considerare "naturale"- è in realtà causato oltre che da numerose malattie, alcune delle quali curabili, dall'abbandono, dall'emarginazione sociale, dalla perdita di relazioni affettive, nonché dalla carenza di esercizio mentale e fisico. La ricerca scientifica sempre più spesso documenta come molte delle perdite attribuite alla macchina del tempo siano provocate da un cattivo stile di vita, da abitudini alimentari errate e dallo scarso esercizio.
Va sottolineato fin da ora che la grande maggioranza delle persone anziane - oltre i 65 anni - conserva un cervello in grado di funzionare in modo corretto.
Recentemente, è stato dimostrato che, accanto a fenomeni di perdita di cellule e di collegamenti, nel cervello senescente sono conservate capacità riparative e rigenerative; questa proprietà, nota col termine di plasticità neuronale, potremmo immaginarla come quella di un orologiaio che interviene a riparare alcuni danni.
La plasticità è il meccanismo del cervello che ne regola la caratteristica di essere continuamente modificato e modificabile dal prodotto della sua stessa attività.

Secondo l’ipotesi della riserva cerebrale, “le attività piacevoli con cui una persona si tiene occupata nel tempo libero, hanno un effetto positivo nel proteggere dallo sviluppo di decadimento cognitivo”, probabilmente perché ciò fornisce una “riserva” che ritarda l’inizio delle manifestazioni cliniche del disturbo; quindi tenere impegnata una persona in un compito gradevole è comunque positivo ed ha un valore protettivo
e terapeutico scientificamente dimostrato; inoltre tenersi cognitivamente impegnati ha un valore protettivo: infatti, persone con un livello di educazione maggiore sono soggette a minor rischio di sviluppare demenza (o la sviluppano più tardi).
Normalmente il cervello non è utilizzato al 100%. Alcuni neuroni sono poco attivi e praticamente inutilizzati. Quando si verifica una lesione cerebrale localizzata di piccole dimensioni, nel giro di poco tempo questi neuroni cominciano a svolgere la funzione, che prima veniva svolta dai neuroni danneggiati. Il recupero funzionale che ne consegue è in questo caso permesso da una sorta di riserva naturale del cervello. Se una persona impara ad utilizzare diverse strategie per svolgere un compito, qualora ne perdesse una può ancora utilizzare l’altra.
Ad esempio, avere l’abitudine di prendere nota degli impegni, permette di ricordare anche quando si è persa parzialmente la memoria. In questo caso, la riserva è permessa dalla presenza di strategie multiple. Ma le possibilità e le riserve che ha il nostro cervello sono davvero molte.
Le complesse funzioni che il cervello svolge, non sono date tanto dal numero di neuroni, quanto dal numero delle loro connessioni.
Quando una persona si è mantenuta molto attiva dal punto di vista cognitivo, ha creato molte connessioni fra i suoi neuroni, cioè dei potenziali percorsi alternativi per l’elaborazione delle informazioni.
Non è solo il numero di percorsi, ovvero delle connessioni tra neuroni, a costituire la riserva: anche la forza delle connessioni ha la sua importanza. Più volte viene percorsa una connessione, più essa è stabilizzata, più sarà facile che venga ripercorsa, come il corso di un fiume che viene scavato sempre di più con lo stesso scorrere dell’acqua.
Quindi non è solo l’aver creato molte connessioni, ma anche il fatto di averle mantenute attive, che contribuisce a facilitare questa riserva cerebrale.
Non si deve dimenticare che la riserva funzionale è anche garantita da un altro fenomeno che è la attività trofica (di nutrimento) dei neuroni. Quando un neurone è circondato da neuroni lesi, non riceve più segnali e anche quello muore. Se il neurone ha connessione anche con altri neuroni vivi, ma questi sono poco attivi, sarà probabile che muoia. Se invece le poche connessioni rimaste sono neuroni altamente funzionanti, questi svolgeranno una funzione trofica, ed il neurone continuerà a vivere e funzionare, anche se alcune delle sue connessioni non saranno più utilizzabili. Nel primo caso si avrà una degenerazione progressivamente più grave, nel secondo la degenerazione sarà molto rallentata, anche se è in corso una vera e propria malattia degenerativa.
L'invecchiamento cerebrale non è perciò un processo monolitico, a senso unico, di logoramento, dominato dalla perdita, ma è influenzato da variabili complesse che possono, nell'equilibrio instabile tra logoramento e plasticità, favorire un buon invecchiamento.
Com’è possibile conservare, ottimizzare o amplificare la plasticità neuronale?
L'attività mentale e fisica rappresentano potenti mezzi per amplificare i meccanismi di difesa dell'organismo e del cervello.
E' stato dimostrato che un ambiente stimolante e l'opportunità di un maggior esercizio producono un aumento di spessore e di peso del cervello, un aumento dei collegamenti tra neuroni, nonché un miglioramento delle performance generali.
Sono numerosi gli anziani che in età avanzata conservano la capacità di svolgere compiti complessi e di rivestire incarichi sociali impegnativi.
E' stato dimostrato, in un gruppo di anziani che svolgevano regolarmente attività fisica anche dopo il pensionamento, che la circolazione cerebrale e le funzioni mentali, erano meglio conservate rispetto a coloro che avevano ridotto o sospeso l'attività fisica.html/body/p[3]

 

La memoria, principale imputata

I disturbi della memoria rappresentano uno dei motivi che più frequentemente inducono l'anziano a rivolgersi ad uno specialista.
Tuttavia spesso ciò avviene solo quando la smemoratezza è tale da interferire pesantemente con la possibilità di una vita autonoma; in questo caso, abitualmente, il paziente non è consapevole delle proprie disabilità e sono i familiari a richiedere l'aiuto di un esperto.
E' ancora troppo diffusa, infatti, la convinzione che l'età comporti, inesorabilmente, una riduzione più o meno evidente della memoria; è così che disturbi lievi, ritenuti, erroneamente, inevitabili ed incurabili, vengono spesso trascurati. E' opportuno, a questo riguardo, chiarire fin d'ora una regola generale che si applica a numerose malattie tipiche dell'anziano: l'efficacia di un intervento terapeutico, e quindi la possibilità di ottenere una guarigione o comunque un controllo adeguato, è condizionata dalla tempestività con la quale si riconosce una malattia. Anche nel caso dei disturbi di memoria vale questa regola.

La memoria è, accanto all'intelligenza, una delle funzioni più complesse dell'attività umana e può essere definita come la capacità di riprodurre nella propria mente un'esperienza precedente; in altri termini, è quell'insieme di funzioni localizzate nel cervello che ci consentono di registrare messaggi o informazioni grazie alla collaborazione degli organi di senso (udito, vista, tatto) e di rievocarli allorquando lo
desideriamo. L'esperienza che viene memorizzata o rievocata può essersi verificata pochi secondi o molti anni prima; può essere stata molto breve, oppure essere durata a lungo; può aver coinvolto tutti gli organi di senso o essere stata soltanto un'esperienza visiva, verbale, olfattiva o motoria. Quotidianamente, tramite i nostri
sensi, il cervello riceve enormi quantità di segnali di vario genere; dei quali siamo più o meno consapevoli, la maggior parte dei quali non lascia traccia.
I sensi sono essenziali per l'acquisizione di nuove informazioni, che poi vengono immagazzinate nella memoria. Ad esempio, una persona che soffre di presbiacusia (cioè della incapacità di sentire i suoni di frequenza elevata), può con facilità non sentire lo squillo del telefono, può avere difficoltà nell'ascoltare la voce delle persone,
specialmente delle donne, e può avere problemi nell'interpretare le parole ricche di consonanti come F, S e Z. Le persone affette da questo disturbo possono sembrare "smemorate", quando, invece, il vero problema è la mancanza di corrette informazioni.
In modo analogo, anche i disturbi della vista possono provocare, seppure indirettamente, deficit della memoria. Il buon funzionamento della memoria dipende oltre che dal livello di integrità degli organi di senso, anche dal grado di attenzione che il soggetto rivolge ad un dato evento, dalla risonanza affettiva che quest'ultimo esercita, nonché dalle circostanze in cui l'evento deve essere richiamato.
Ad esempio, una persona può avere a disposizione un tempo adeguato per richiamare un'informazione o essere forzato a rispondere molto rapidamente; può essere rilassato oppure trovarsi in uno stato di apprensione o ansia, che influenzano negativamente la memoria; e ancora, può trovarsi in un ambiente accogliente e distensivo, oppure affollato, caotico e ricco di distrazioni.
La memoria è influenzata dalla presenza di malattie (endocrine, infettive, tumori), la cui cura consente un completo recupero della capacità di ricordare. Anche l'uso improprio di farmaci, per esempio i sonniferi, può compromettere il buon funzionamento della memoria.
La depressione e l'ansia costituiscono una causa frequente, e potenzialmente reversibile, di disturbo della memoria. Si tratta di condizioni psichiche di frequente osservazione, nelle quali il livello di attenzione dell'anziano è compromesso, polarizzato attorno a sensazioni di impotenza, di sfiducia, paura, e timori talvolta immotivati: non c'è spazio per i progetti, per il futuro.
Anche il presente viene subito passivamente. A loro volta, la depressione ("l'esaurimento nervoso" nel gergo popolare) e l'ansia possono essere scatenate o favorite dalla riduzione dei rapporti sociali, dal pensionamento, dalla perdita di persone care, oppure da condizioni di malattia, che limitano l'autonomia o provocano dolore.
Si tratta di circostanze frequenti nell'anziano che possono compromettere la memoria, la quale a sua volta può peggiorare l'ansia ed accentuare la depressione, instaurando così un circolo vizioso. Una percentuale minoritaria di anziani (10% degli ultra 65enni), soffre di disturbi della memoria progressivamente sempre più gravi e tali da comportare la perdita dell'autosufficienza; in queste situazioni, la causa è da attribuire, nella maggioranza dei pazienti, alla malattia di Alzheimer oppure alla demenza multinfartuale vascolare (in passato definita arteriosclerotica). E' opportuno però sottolineare che il 90% degli anziani non è demente ed ha un cervello in grado di funzionare, a patto che lo tenga in allenamento.
Numerosi sono i termini che vengono utilizzati per descrivere la memoria, i suoi stadi ed i suoi vari aspetti. Le definizioni più note sono quelle che distinguono la memoria a breve termine da quella a lungo termine o remota: la memoria a breve termine si riferisce alla capacità di rievocare percorsi, numeri, cose dopo alcuni secondi o minuti dalla loro percezione. La memoria a lungo termine o remota, indica la capacità di ricordare eventi dopo alcune ore o giorni; riguarda cioè fatti accaduti molto tempo prima, ed è quella più resistente in caso di malattia cerebrale.
Nel corso dell'invecchiamento normale, alcuni aspetti del funzionamento della memoria presentano un declino; la capacità di ricomporre un numero telefonico di dieci cifre, tenendo in mente dopo un segnale di "occupato", oppure di ricordare informazioni ascoltate alla radio mentre si guida, si riducono nell'anziano, rispetto al giovane. La presenza di fattori distraenti, in grado di disturbare la "ricezione" di informazioni, influisce in modo negativo nell'età avanzata. Così avviene anche per l'esecuzione di compiti per i quali il soggetto ha a disposizione un tempo limitato.
Esistono aspetti della memoria, che nell'anziano non mostrano alcun deficit o addirittura presentano una prestazione migliore col passare degli anni. La memoria cosiddetta semantica, che si riferisce alla capacità di definire il significato delle parole ed al patrimonio delle parole conosciute, ed è influenzata dall'educazione, può migliorare sensibilmente con l'età.
Negli anziani, quindi, l'apprendimento e le capacità di memoria nel loro complesso rimangono relativamente normali. Alcuni studiosi ritengono che la memoria inizi a diminuire poiché una persona cessa di usare i metodi utilizzati in passato per ricordare meglio. L'abilità non sfruttata viene perduta.
A questo riguardo, si deve sottolineare che quasi tutti gli studi negativi sull'apprendimento o la memoria dell'anziano sono stati eseguiti in laboratorio, dove l'attenzione è focalizzata su questioni astratte, lontane dalla realtà quotidiana. Nelle situazioni vive di ogni giorno, l'anziano è invece facilitato rispetto al giovane, perché le nuove informazioni vengono inserite in una rete già esistente di conoscenze. L'elevata quantità di nozioni precedentemente immagazzinate e la maggiore capacità critica facilitano l'apprendimento ed il ricordo di cose nuove. Tuttavia, non ci si deve
aspettare di ricordare fatti o nomi velocemente come nella giovinezza; rievocare informazioni richiederà più tempo, ma la capacità di ricordare resterà fondamentalmente invariata. Esserne consapevoli può evitare inutile ansia.
Quando una persona presenta disturbi di memoria che interferiscono con la capacità di vita indipendente o che riguardano informazioni importanti, è opportuno consultare il medico curante.
E' utile sottolineare che, in alcuni soggetti anziani normali, si può manifestare un disturbo della memoria connesso all'età, che però non compromette le abituali attività quotidiane; è pertanto importante non drammatizzare. Si tratta di sintomi non patologici, come lo sono la presbiopia e la diminuzione della forza muscolare.
Esistono metodi ed esercizi che possono aiutare a mantenere giovane la memoria oppure a compensarne le lacune. Molti usano semplici espedienti per ricordare il nome di qualcuno o altri dati; se anche l'anziano organizza le informazioni nuove che riceve, le ripete ad alta voce o le associa a qualche immagine visiva, la sua capacità di memoria migliora.
Quando, nonostante l'applicazione e l’utilizzo di questi ed altri esercizi utili alla memoria, la persona anziana ritiene di non ricordare bene, risulta necessario chiedere consiglio al medico.

Invecchiamento cerebrale e declino cognitivo

L’anziano sano presenta delle modificazioni delle funzioni cognitive, che si differenziano da quelle di carattere progressivo che intervengono nelle demenze. La diffusione delle demenze, che in Italia colpisce circa il 5% degli uomini e il 7% delle donne con più di 65 anni, riducendo sensibilmente le aspettative di vita, è legata al mutato scenario demografico. Con l’invecchiamento continuo della popolazione mondiale, la demenza si raffigura già da ora come una delle più importanti emergenze sanitarie che il pianeta si sia mai trovato ad affrontare.
Ecco perché è bene imparare a riconoscere il decadimento cognitivo, quando esso è in una fase ancora lieve e precoce ed a distinguerlo da ciò che patologia non è.

In gerontologia è importante distinguere tra:
- NORMA: ciò che può essere comune a soggetti della stessa età, ma può non essere presente in tutti (eempio: CATARATTA);
- NORMALITA’: ciò che è presente in tutti i soggetti della stessa età.
Se conosciamo la normalità di una condizione possiamo cercare di farvi avvicinare la norma.
Ciò che può essere comune ad alcune persone anziane è il decadimento cognitivo, ma quest’ultimo non è una condizione di normalità; la condizione di normalità è invece la vecchiaia.
Ma perché si invecchia? E come mai ogni persona sembra invecchiare in maniera differente? Quali sono i fattori che hanno un peso in questo processo?
Da una parte, l’invecchiamento cerebrale con le sue modifiche anatomostrutturali nel cervello e anatomo-funzionali nel metabolismo energetico, modifiche nella barriera emato-encefalica, modifiche ai neurotrasmettitori, sembra essere il primo artefice della vecchiaia cognitiva; dall’altra, i fattori ambientali che compromettono la funzionalità dell’organismo, sono stati messi anch’essi sul banco degli imputati. In verità, a tutt’oggi nemmeno gli studi su gemelli omozigoti ultraottantenni danno risposte univoche sul peso di questi due fattori.
Quello che possiamo dire per certo è che l’invecchiamento sano presenta delle modificazioni delle funzioni cognitive che si differenziano da quelle di carattere progressivo, che intervengono nelle demenze e che sono a carico delle:

  • Funzioni motorie;
  • Ritmo sonno-veglia;
  • Funzioni psico-affettive;
  • Funzioni cognitive.

Inoltre, nel naturale processo di invecchiamento cerebrale, si innescano anche fenomeni di atrofizzazione quali ad esempio:

  • diminuzione del quantitativo di materia cerebrale;
  • aumento del liquor cerebrospinale;
  • il flusso ematico cerebrale e l’ossigeno utilizzato diminuiscono;
  • la neuropatologia aumenta;
  • riduzione delle ramificazioni dendritiche;
  • demielinizzazione degli assoni;
  • declino dei neurotrasmettitori (dopamina e acetilcolina).

Tutti questi fenomeni portano ad un decadimento selettivo in certe strutture cerebrali: ippocampo, amigdala, lobo temporo-mediale, lobi frontali (in particolare la corteccia prefrontale) e corpo calloso.

Quali sono dunque le funzioni cognitive che si modificano naturalmente con il passare degli anni?

  • Memoria: conservate capacità di MBT e di memoria remota, inferiori capacità di MLT e working memory per carente uso di strategie durante la fase di codifica delle informazioni e per ridotte capacità di concentrazione nella fase di recupero;
  • Abilità visuo-spaziali: ridotte per minore efficienza delle funzioni sensoriali e minore capacità di integrazione a livello centrale;
  • Tempi di reazione: più lunghi;
  • Funzioni linguistiche: influenzate dai deficit di memoria;
  • Intelligenza: conservata, sebbene una valutazione psicometrica possa fare emergere delle difficoltà dovute a rallentamento dei processi di integrazione centrale e alle minori capacità motorie e sensoriali (intelligenza fluida vs cristallizzata).

Quali tipi di rapporti intercorrono allora tra l’invecchiamento “fisiologico” e la demenza? Ancora non sono del tutto chiariti; esiste però un’area di studio che si colloca nello spazio intermedio tra normalità e patologia e che, nel corso degli anni, ha ricevuto definizioni diverse fino a giungere a quella maggiormente accettata, nel lontano 1999: l’MCI o decadimento cognitivo lieve (Mild Cognitive Impairment), la cui patogenesi e nosografia è ancora da accertarsi nel dettaglio. Esso sarebbe uno stadio di transizione, a metà strada tra la condizione di vecchiaia fisiologica e quella patologica della demenza, una specie di ”area grigia” a metà tra una condizione pienamente normale ed una francamente patologica.
Sebbene le persone che si ammalano di MCI corrano un rischio molto maggiore di “convertire” a demenza, gli studiosi sono ancora indecisi sulla patogenesi di questa patologia e sul fatto che essa corrisponda ad una fase necessaria che precede la comparsa della demenza “conclamata”.
Il decadimento cognitivo lieve (mild cognitive impairment o mci), così come definito da Petersen e colleghi nel 1999, avrebbe queste caratteristiche:
• interessa il 20% della popolazione anziana;
• è caratterizzato da Deficit della memoria (o di altre funzioni cognitive) senza rilevante impatto funzionale;
• è un fattore di rischio per lo sviluppo della demenza (percentuale di conversione attorno al 15% annua e >3 volte rispetto agli anziani normali);
• non rappresenta l’anticamera obbligatoria della demenza.

La demenza va dunque intesa come una fase terminale di un processo inesorabile di esaurimento funzionale del cervello (Drachman, 1994), o si tratta piuttosto di una patologia a tutti gli effetti, distinta dall’invecchiamento, sebbene quest’ultimo ne rappresenti un fattore di rischio (Khachaturinan, 2000)?
A tutt’oggi, gli sforzi degli studiosi convergono maggiormente su questa seconda ipotesi, avvalorando la tesi secondo la quale la persona anziana è un soggetto portatore di una condizione clinica del tutto particolare.
Ma allora chi è l’anziano affetto da decadimento cognitivo?
L’anziano con deterioramento cognitivo è un paziente complesso, che necessita di una metodologia d’intervento che si rifaccia alla medicina olistica, la quale pone al centro delle sue speculazioni il malato e non la malattia.
Per questo si parla di strategie di intervento “small gains” che si fondano sulla possibilità di correzione di tutto ciò che è possibile correggere, al fine di migliorare la qualità della vita del paziente e del familiare che se ne occupa o “caregiver”.
Vi sono numerosi elementi di complessità per la diagnosi di declino cognitivo e demenza, che dovrebbero essere sempre tenuti presenti e che rendono i pazienti diversi gli uni dagli altri:

  • originalità del modo di invecchiare;
  • presenza di deficit neuro sensoriali;
  • comorbidità o compresenza di altre malattie;
  • polifarmacoterapia o assunzione contemporanea di più farmaci per patologie specifiche;
  • fattori socio-ambientali.

Per tutti questi motivi una corretta valutazione multidimensionale (vmd) dovrebbe indagare sullo:

  • stato fisico;
  • stato cognitivo ed affettivo;
  • stato funzionale;
  • stato socio-economico-ambientale dell’anziano.

L’obiettivo di qualsiasi intervento che veda al centro il paziente anziano, dovrebbe essere sempre quello di migliorare o mantenere stabile la qualità della vita di paziente e caregiver.

Le demenze: epidemiologia ed inquadramento diagnostico

Se la mente è quella preziosa facoltà, che ci distingue dagli altri animali, “perdere la mente” è di sicuro una grande sventura. La demenza è la più comune causa di “perdita della mente”. Questa malattia causa una progressiva disgregazione delle capacità cognitive, determinando una proporzionale incapacità di badare a se stessi e causando la perdita della propria identità personale e sociale. E’ come un processo regressivo, che ci fa tornare indietro nel tempo; è come un “buco nero”, che ingoia tutto, a cominciare dai ricordi e dalle esperienze più vicine e, via via, sempre più
indietro nel tempo.
La demenza è ancora, oltre che malattia dell’individuo, anche malattia della famiglia, sia perché in questo processo regressivo coinvolge gli affetti e le relazioni primarie
all’interno del nucleo familiare, sia perché quest’ultima è la prima e più importante struttura che è chiamata a farsene carico, spesso lasciata sola ad affrontare un problema grande e complesso di cura, di relazione, di adattamento psicologico e comportamentale a cambiamenti spesso radicali e traumatici che rischiano di travolgerla.
Il termine “demenza”, indica una malattia del cervello, che comporta la compromissione delle facoltà mentali (quali la memoria, il ragionamento, il linguaggio ecc.), tale da pregiudicare la possibilità di una vita autonoma. Contrariamente a quanto spesso si pensa, la demenza non costituisce una conseguenza inesorabile, un "destino ineluttabile" di chi invecchia.
Molti conoscono persone che, novantenni o centenarie, conservano, sia pure con qualche acciacco, un cervello "arzillo" e ben funzionante: non si tratta di "mostri", ma della testimonianza più evidente, che è possibile raggiungere i confini dell'esistenza in salute. Sono la prova vivente di come sia possibile invecchiare con dignità. La demenza è una sindrome, ossia un insieme di sintomi, che può essere provocata da un lungo elenco di malattie, alcune molto frequenti, altre rare.
La demenza rappresenta un problema rilevante, in particolare nella popolazione anziana la cui numerosità, rispetto alla popolazione generale, è sensibilmente aumentata nel corso degli ultimi decenni.
Circa il 10% degli ultra sessantacinquenni ed il 20% degli ultra80enni che risiedono al domicilio manifestano un grado variabile di deterioramento delle funzioni cognitive. Nel 50% circa dei casi la demenza è sostenuta dalla malattia di Alzheimer. Si tratta di una malattia progressiva, che prende il nome da Alois Alzheimer, il neurologo, che nel 1907, l'identificò per la prima volta.
Nel 15% dei casi la demenza è dovuta all'arteriosclerosi cerebrale ed, in particolare, a lesioni cerebrali multiple (lesioni ischemiche), provocate dall'interruzione del flusso di sangue; è la demenza multiinfartuale. Questa malattia è nota anche con il termine, che in passato, veniva impiegato per indicare la quasi totalità dei disturbi mentali dell'anziano: arteriosclerosi cerebrale. E' importante sottolineare che questa forma di demenza può, al contrario della malattia di Alzheimer, essere prevenuta tramite il corretto controllo dei fattori che ne favoriscono l'insorgenza, in particolare l'ipertensione arteriosa ed il diabete mellito. Nel 15-20% dei casi la demenza è dovuta alla contemporanea presenza di malattia di Alzheimer e di lesioni ischemiche: questa condizione si indica con il termine di demenza mista. Il restante 15-20% dei pazienti presenta una demenza sostenuta da malattie suscettibili di guarigione (tra le altre, malattie endocrine, farmaci, idrocefalo normoteso, depressione).
Il deterioramento delle funzioni cognitive, infatti, non è sempre sinonimo di demenza. Sintomi simili alla demenza possono infatti manifestarsi nel corso di malattie acute febbrili, oppure come conseguenza di malattie croniche non ben controllate, in particolare disturbi del cuore e dei polmoni. L'uso scorretto di alcuni farmaci (tranquillanti, sonniferi, farmaci per il mal d'auto), può essere responsabile di disturbi della memoria o confusione. Un'altra frequente causa di decadimento delle funzioni cognitive è rappresentata dalla depressione (esaurimento nervoso), la malattia psichica più diffusa nella popolazione anziana; soprattutto nelle sue forme più severe, può apparire indistinguibile da una demenza grave. D'altra parte, anche espressioni più lievi di depressione possono provocare disturbi della memoria e confusione. Infine, il trasferimento in ambienti quali l'ospedale o la casa di riposo può provocare uno stress tale da produrre una condizione di apparente demenza.

 

Epidemiologia

In geriatria si parla sempre di prevalenza ed incidenza delle demenze, due concetti molto diversi:
La Prevalenza rappresenta il rapporto tra numero di soggetti affetti da demenza in una determinata popolazione in un determinato giorno e il numero di soggetti a rischio nell’intera popolazione nello stesso giorno. Negli over65 varia tra il 3,4% (Svezia) e il 6,7% (Giappone) e raddoppia ogni 5 anni di età. Tra le forme dementigene ci sono differenze di prevalenza nei vari paesi; ad esempio l’AD è la forma più frequente in Europa e nell’America del Nord (50-80% dei casi). La demenza vascolare è invece la seconda maggiormente rappresentata per frequenza e varia dall’11-24% dei casi, mentre è la forma più frequente in Giappone (Fratiglioni et al., 1991).
L’Incidenza è il rapporto tra il numero di nuovi casi che compaiono durante un anno in una popolazione e il numero di persone a rischio nell’intera popolazione nello stesso anno. L’incidenza è stimata pari all’1% nei soggetti con più di 65 anni, variando dallo 0,2-0,8% nei soggetti di età compresa tra i 65-69 anni, fino ad oltre il 3% nei soggetti con più di 80 anni. Anche l’incidenza tende ad aumentare al crescere dell’età (>65 anni), ma ancora non è chiaro se in seguito tale indice tenda a stabilizzarsi o a diminuire.
L’inquadramento diagnostico è dunque una fase fondamentale della presa in carico dell’anziano con decadimento cognitivo, ma rappresenta anche un momento assai difficile, a causa dei molteplici fattori che possono configurare un quadro dementigeno (diagnosi differenziale) e della presenza di patologie psichiatriche od organiche (anamnesi).
Esistono dei criteri diagnostici per la diagnosi di demenza comunemente accettati. (ICD 10 – WHO, 1993; DSM IV – APA, 1994).

Per impostare una terapia adeguata, ammesso che ce ne sia una, occorre definire l’eziologia della demenza, come di ciascuna altra malattia, attraverso:
1) Valutazione clinica
_ Anamnesi
_ Esame obiettivo generale e neurologico
_ Valutazione dello stato mentale
_ Valutazione dello stato funzionale

2) Valutazione strumentale e psicometrica
_ Esami di laboratorio e strumentali (TAC; MRI)
_ Test neuropsicologici
_ Esame del liquor, neuroimaging funzionale (PET, SPECT), EEG.

Un aspetto fondamentale per orientare il medico sulla genesi dei disturbi mentali è costituito dalla raccolta delle informazioni sulla storia recente e passata del malato: l’apporto dei familiari o di chi conosce il paziente e’ sempre molto importante.

Accanto all’esame del malato, le indagini necessarie per confortare l’orientamento diagnostico sono:
- Analisi del sangue;
- Analisi delle urine;
- Cardiogramma;
- Tac o Risonanza Magnetica del cervello.

Nel caso della demenza di Alzheimer, ad esempio, la diagnosi viene formulata, quando sono state escluse altre condizioni patologiche e anche qualora gli esami abitualmente eseguiti fossero assolutamente normali.
Per quanto riguarda altri indici da considerare, non bisogna mai dimenticare che la prognosi è condizionata dal tipo di demenza, dai sintomi che la caratterizzano e dall’età della persona. L’evoluzione della malattia è più rapida nei giovani ed in coloro che presentano precocemente disturbi nella comunicazione (difficoltà nel reperimento delle parole o di comprensione del linguaggio). Anche la presenza di disturbi del comportamento (agitazione, deliri, vagabondaggio, insonnia), accelerano la progressione della malattia.
Ad esempio, nella demenza vascolare ischemica, l’evoluzione della malattia avviene “a gradini”: a rapidi peggioramenti dell’autonomia si alternano fasi di relativa stabilizzazione delle condizioni generali del malato. Contrariamente a quanto avviene nell’Alzheimer, il malato conserva anche nelle fasi avanzate della malattia, alcune capacità cognitive. Esistono poi delle condizioni, non dementigene, che è bene tenere separate da quella fisiologica di invecchiamento “sano” e normale e che, spesso, vengono confuse o non riconosciute. La loro caratteristica principale è quella di essere transitorie e non permanenti, come invece lo sono le demenze.

Le demenze: classificazione

Le demenze possono essere classificate in base a tre aspetti fondamentali:
_ Classificazione eziologica;
_ Classificazione neuropatologica;
_ Classificazione prognostica.

La classificazione eziologica prende come criterio fondamentale la causa e perciò l’eziologia della demenza. In questo senso, le demenze vengono classificate come demenze primarie su base degenerativa, oppure come demenze secondarie legate a patologie di varia natura e a patologie neurologiche, che secondariamente portano allo sviluppo di un quadro dementigeno.
Le demenze primarie sono la causa di degenerazione del cervello, mentre quelle secondarie seguono la comparsa di altre condizioni patologiche.

La classificazione neuropatologica invece tiene in considerazione la sede di insorgenza della demenza; in questo senso le demenze vengono divise in demenze corticali, caratterizzate da disturbi dell’apprendimento, deficit corticali, afasia, disinibizione o indifferenza, motilità normale fino negli stadi avanzati, e in demenze sottocorticali (Parkinson), caratterizzate da disturbi del richiamo del materiale mnestico, apprendimento relativamente conservato, disartria, ipofonia, bradifrenia, apatia, sintomi extrapiramidali (rigidità, tremore, paralisi dello sguardo).
La classificazione prognostica invece, considera come fondamentale il destino della malattia e perciò la prognosi della demenza. In questo caso, le demenze vengono classificate come demenze irreversibili, quali ad esempio la demenza vascolare o la paralisi sopranucleare progressiva, oppure l’Alzheimer, e come demenze reversibili perché trattabili con interventi chirurgici o farmacologici.

La malattia di Alzheimer

La malattia di Alzheimer rappresenta la più frequente forma di demenza nei paesi occidentali. La prevalenza della malattia aumenta con l'età; meno dell'1% degli individui al di sotto dei 65 anni ne risulta affetto, mentre sono colpiti il 4-7% degli ultra sessantacinquenni e circa il 20% degli ultraottantenni.
Le caratteristiche cliniche della malattia possono variare notevolmente da soggetto a soggetto; tuttavia l'inizio è generalmente insidioso-subdolo ed il decorso cronico-progressivo.
I sintomi iniziali dell'Alzheimer sono spesso attribuiti all'invecchiamento, allo stress oppure a depressione. L'anziano può presentare modificazioni del carattere, essere meno interessato ai propri hobby o al proprio lavoro, oppure essere ripetitivo. Talvolta l'inizio della malattia è contrassegnato dalla sospettosità nei confronti di altre persone, accusate di sottrarre oggetti o cose che il malato non sa trovare. Altre volte ancora la malattia può iniziare in seguito ad un trauma automobilistico, oppure manifestarsi durante un ricovero ospedaliero o nei giorni che seguono un intervento
chirurgico. Spesso i familiari tendono ad attribuire ad un evento, un trauma o un intervento chirurgico, la causa della malattia.
In realtà, queste evenienze costituiscono, nel caso della malattia di Alzheimer, eventi stressanti, che rendono evidente e manifesta una malattia cerebrale già presente. Nella grande maggioranza dei casi, solo a distanza di uno - due anni dall'esordio della malattia, il disturbo della memoria è tale che i familiari ricorrono all'aiuto di uno specialista.
Il disturbo della memoria costituisce il sintomo cardinale della malattia ed il primo a manifestarsi rispetto ad altri che coinvolgono il linguaggio o la capacità di ragionamento.
Il primo sintomo è generalmente una lieve perdita della capacità di ricordare avvenimenti o fatti recenti, che progredisce gradualmente ed alla quale si associano alterazioni della personalità e deficit delle altre funzioni cognitive. Il pensiero astratto, la capacità di eseguire ragionamenti, risulta impoverito. La capacità di giudizio è diminuita spesso precocemente, cosicché il paziente manifesta un ridotto
rendimento lavorativo e può essere incapace di affrontare e risolvere problemi anche semplici relativi ai rapporti interpersonali o familiari. Il deterioramento della capacità di giudizio determina grande preoccupazione tra i familiari ed i colleghi di lavoro.
Uno dei caratteri più specifici è il cambiamento della personalità. Spesso, soprattutto negli anziani, compare apatia; il paziente perde interesse per l'ambiente e per gli altri, richiudendosi in se stesso.
Spesso vengono esagerati i caratteri premorbosi della personalità, quali atteggiamenti ossessivi, aggressività, sospettosità. In altri casi, vi è invece un mutamento della personalità, per cui soggetti solitamente controllati e misurati diventano impulsivi, intrattabili ed a volte anche violenti. In alcuni casi, la malattia si manifesta con una difficoltà nella denominazione degli oggetti, oppure con un impoverimento del linguaggio ed il ricorso a frasi stereotipate. Altre volte, il sintomo che si associa al disturbo della memoria, può essere rappresentato dalla difficoltà nella guida dell'automobile. Il paziente denuncia una progressiva incapacità a svolgere compiti che per lui erano familiari. In questa fase, il paziente può essere ignaro ed inconsapevole dei propri disturbi; sono i familiari che notano per primi un comportamento "strano".
Uno dei sintomi che più frequentemente accompagnano il disturbo della memoria è la depressione. Talvolta questa deriva dalla consapevolezza di non essere più all'altezza della situazione e di dover dipendere da altri nell'esecuzione di compiti o attività consuete.
Accanto alla depressione, altri sintomi possono accompagnarsi alla demenza ed essere fonte di stress per i familiari. Fra i più frequenti troviamo l'agitazione, la paura di essere derubati, la sospettosità, i sentimenti d'abbandono, gli episodi di esplosione verbale, il pianto immotivato o la violenza.
I disturbi del sonno rivestono grande importanza, anche perché determinano uno stress notevole nei familiari. Il paziente di notte è insonne e vaga per la casa o per l'ospedale; altre volte si sveglia in piena notte e ritiene sia ora di pranzare o di andare a fare una passeggiata.
In una fase intermedia della malattia, il paziente diviene incapace di apprendere nuove informazioni, spesso si perde, anche in ambienti a lui familiari. La memoria remota è compromessa, anche se non totalmente persa. Il paziente è a rischio di cadute, può richiedere assistenza nelle attività della vita quotidiana (quali lavarsi, vestirsi, alimentarsi, ecc.); generalmente è in grado di deambulare ed alimentarsi autonomamente. Il comportamento diviene ulteriormente compromesso; abitualmente è presente un completo disorientamento spazio-temporale.
Nelle fasi avanzate della malattia di Alzheimer, il paziente è incapace di camminare e di svolgere qualsiasi attività della vita quotidiana, è incontinente. La memoria, sia recente che remota, è totalmente persa ed il paziente può divenire muto ed incapace di deambulare. Si manifesta difficoltà nella deglutizione e può essere necessario alimentare il paziente artificialmente. Il rischio di complicanze, quali malnutrizione, disidratazione, malattie infettive (polmoniti soprattutto), piaghe da decubito, diviene elevato.
La malattia può avere un decorso variabile e sono state descritte sopravvivenze dai 2 ai 20 anni, con una media di circa 7-10 anni.

Diagnosi, prognosi e fattori di rischio

I criteri specifici per poter fare diagnosi di Alzheimer sono denominati criteri diagnostici NINCDS – ADRDA (McKchann et al., 1984). Secondo questi criteri la diagnosi di AD DEFINITA si fonda solo sull’esame neuropatologico.

1.Malattia di Alzheimer definita

  • Pazienti che soddisfano i criteri clinici per la diagnosi di AD probabile;
  • La biopsia e/o l’autopsia evidenziano un quadro compatibile con AD.

2.Malattia di Alzheimer probabile

  • Demenza documentata al mini mental state esamination (MMSE) e confermata da altri test neuropsicologici; deficit di 2 o più aree cognitive;
  • Peggioramento progressivo della memoria e di altre funzioni cognitive;
  • Stato di coscienza integro;
  • Esordio di malattia tra i 40-90 anni;
  • Assenza di disturbi sistemici o cerebrali che possano giustificare il progressivo decadimento.
  • 3.Malattia di Alzheimer possibile
  • Esordio, presentazione e decorso della demenza vari ed inusuali per AD, ma senza altra spiegazione;
  • Presenza di un disturbo cerebrale secondario che potrebbe provocare una sindrome demenziale, ma che non è la causa attuale della demenza;
  • Presenza di un singolo deficit graduale e progressivo.

E' di fondamentale importanza ricorrere al medico quando le prime avvisaglie di un deterioramento cognitivo si manifestano; la possibilità , in caso di malattia guaribile, di ottenere un ripristino delle normali funzioni mentali, è infatti condizionata dalla tempestività dell'intervento diagnostico e terapeutico.
Secondo Rentz et al. (2002) nelle fasi precoci della malattia si evidenzia un declino:
_ Nelle prove di richiamo ritardato e poi anche immediato;
_ Nei test di apprendimento supra-span;
_ Nei test di riconoscimento di oggetti e figure;
_ Nelle prove di denominazione (anomie);
_ Nelle prove attentive.

Mentre risultano preservate le abilità di memoria implicita (abilità motorie) e funzioni visuo-spaziali. I pazienti dementi raramente decedono per conseguenza diretta della malattia; la causa è costituita da polmonite, disidratazione, malnutrizione, infezioni, piaghe da decubito oppure da malattie età correlate, quali i tumori o le patologie cardiocircolatorie.

I familiari di un paziente affetto da malattia di Alzheimer sono maggiormente esposti al rischio di sviluppare la stessa malattia?
Questo è uno degli interrogativi più frequenti rivolti agli specialisti. Sebbene i geni possano svolgere un ruolo nel determinare una condizione di "maggior suscettibilità" per la malattia di Alzheimer, la possibilità di una trasmissione ereditaria della malattia è stata dimostrata in un piccola percentuale di soggetti, inferiore al 5%. Nella grande maggioranza dei casi, la malattia si manifesta in modo casuale, imprevedibile, senza che esista la possibilità di una trasmissione diretta. Se si esclude una lieve prevalenza nel sesso femminile, la cui causa è sconosciuta, la malattia di Alzheimer
interessa senza distinzioni gruppi etnici e classi sociali. La prevalenza della malattia aumenta con l'età, che costituisce pertanto il fattore di rischio più consistente per lo sviluppo della malattia, soprattutto tra 75 e 85 anni. Tuttavia fra i centenari la malattia di Alzheimer è rara; oltre i 90 anni sembra infatti che si verifichi una riduzione del rischio.
Superata la fase della diagnosi, per alcune persone (15-20%) c'è la possibilità di un ritorno alla normalità, grazie ad interventi chirurgici, o ad opportuni trattamenti farmacologici. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, inizia un percorso caratterizzato dall'evoluzione della demenza, costellato di problemi, che coinvolgono l'intera famiglia ed i servizi sanitari ed assistenziali.

La storia di un paziente è profondamente diversa rispetto a quella di ogni altro. E' pertanto difficile definire, se non in linea generale, quale possa essere la successione dei problemi. E' consigliabile che questi ultimi vengano affrontati man mano che si presentano, tramite un colloquio costante con il proprio medico di fiducia. Maggiore importanza per i familiari riveste la conoscenza delle cause di alcuni sintomi e delle modalità più corrette per affrontarli. Soprattutto, è importante adottare e mettere in atto interventi affinché, nel limite del possibile, molti problemi possano essere evitati o prevenuti. E' necessario essere consapevoli che l'evoluzione della malattia impone ai familiari un costante adeguamento nel proprio atteggiamento e nelle proprie aspettative alle mutate condizioni del malato. E' altrettanto importante sapere che, malgrado l'evoluzione progressiva della malattia, esiste sempre lo spazio per fare qualcosa, perché il malato viva con dignità, lo spazio per tamponare lo stress e conservare una buona qualità di vita.
Non si tratta di adottare un atteggiamento forzatamente dominato da un vuoto ottimismo; al contrario, è necessario sapere che, anche nel malato più grave, esiste sempre l'opportunità di migliorare le condizioni di vita. Lo sforzo di creare condizioni che contrastino le sopravvenute disabilità, richiede affetto, pazienza, ottimismo, fantasia e versatilità; queste qualità vengono mostrate dalla grande maggioranza dei familiari che si impegnano affinché il proprio caro possa vivere "comunque" nel migliore dei modi.
L'amore, la generosità, l'affetto e la gratitudine, possono essere corroborate e rafforzate, ed il senso di frustrazione attenuato, dalla conoscenza della malattia e da alcuni consigli su come gestire i problemi assistenziali. L' atteggiamento più corretto deve evitare da una parte il senso di disperazione e di impotenza, dall'altra le false speranze. E' fondamentale, infine, che i fornitori d'assistenza dispongano, fin dall'inizio della malattia, di spazi di tempo libero nell'arco della giornata, ricorrendo a familiari, amici oppure ai servizi pubblici.

Gli interventi farmacologici

Nella malattia di Alzheimer, i farmaci si utilizzano con due scopi principali: cercare di curare i disturbi delle funzioni cognitive (quali ad esempio la memoria, il ragionamento, il linguaggio), oppure controllare le modificazioni del comportamento (in particolare l’agitazione e l’irritabilità, l’irrequietezza, l’aggressività, l’insonnia, la depressione).
In ogni caso si tratta di farmaci “sintomatici”, che non sono, cioè, in grado di agire sul processo patologico che determina la malattia. In realtà, sono in corso varie ricerche per sviluppare farmaci che siano in grado almeno di bloccare la progressione della malattia e si spera che, nei prossimi anni, si potranno avere a disposizione sostanze nuove ed efficaci.
Negli anni precedenti numerosi farmaci erano stati usati per curare la demenza, senza però una efficacia significativa. Da alcuni anni sono disponibili (dapprima negli USA ed ora anche in Italia) sostanze di una classe particolare, denominate “inibitori della acetilcolinesterasi”.
Si tratta di farmaci in grado di bloccare la degradazione di un neurotrasmettitore (l’acetilcolina), la cui carenza sembra essere particolarmente importante nel determinare i disturbi tipici della malattia di Alzheimer. Di questi farmaci ad oggi in Italia sono disponibili il donepezil, la rivastigmina e la galantamina. Purtroppo questi farmaci hanno una efficacia clinicamente evidente solo nel 30-40% dei pazienti e solo nelle forme di malattia di Alzheimer di gravità lieve-moderata. Non sono pertanto utili nelle altre forme di demenza e nella malattia di Alzheimer in fase grave. Nei pazienti che rispondono alla terapia, si possono osservare dei miglioramenti temporanei ed un rallentamento nella evoluzione della demenza con un “risparmio” di circa 8-12 mesi sulla progressione naturale della malattia. Il loro uso non è comunque senza rischi e, pertanto, è necessario che un medico specialista prescriva il farmaco e segua il paziente durante il periodo della terapia.

Le ipotesi eziologiche

L’ipotesi eziopatogenetica più accreditata, la cascata dell’amiloide, indica la deposizione extracellulare dell’amiloide non fibrillare come causa dell’AD, sottoforma di placche diffuse o immature che, maturando, assumono la forma di un’area di neuroni distrofici ricchi di grovigli neurofibrillari. Questo processo è mediato dall’incremento della produzione di radicali liberi, dalla presenza di alluminio e di ferro. Si va quindi affermando l’idea che l’accumulo di beta amiloide sia un fattore necessario, ma non sufficiente nel determinare la comparsa dei sintomi dell’Alzheimer. In poche parole, la causa della malattia di Alzheimer, il perché questa deposizione avvenga, non ci è ancora del tutto chiara.

La stimolazione cognitiva

La demenza si caratterizza per essere una patologia cronica e progressiva, cioè che permane nel tempo e tende gradualmente ad aggravarsi, fino a privare la persona di gran parte delle sue facoltà mentali. Parlando di demenza, il termine riabilitazione può non sembrare il più indicato se, con esso, intendiamo letteralmente quelle procedure terapeutiche che permettono di abilitare, anche parzialmente, una persona ad una funzione temporaneamente compromessa. Nel nostro caso, purtroppo, sappiamo bene che il deterioramento è inesorabile e la ri-abilitazione, in senso stretto,
non costituisce un obiettivo realistico.

Definiamo la stimolazione cognitiva spiegando i suoi obiettivi principali:

  • Favorire l’utilizzo ed il mantenimento temporaneo delle funzioni residue. Il deterioramento cognitivo non si presenta in tutti i soggetti con le stesse caratteristiche e con lo stesso livello di gravità. I soggetti si differenziano per un diverso grado e qualità di capacità ancora presenti. Fare stimolazione vuole dire anzitutto conoscere il livello di funzionamento complessivo e specifico e modulare la proposta di attività in modo da promuovere l’utilizzo delle capacità ancora sufficientemente conservate. La stimolazione cognitiva è quindi un’attività altamente strutturata, da non confondere con qualsiasi tipo di proposta ludico-ricreativa. La differenza fra un intervento naif ed una buona stimolazione non consiste principalmente nelle singole attività proposte, ma nel carattere orientato, individualizzato e specifico delle esercitazioni.
  • Promuovere esperienze gratificanti che sostengano l’autostima e l’immagine personale. Affinché qualsiasi tipo di proposta possa essere accolta e realizzata dall’anziano affetto da demenza, questa deve proporsi in modo adeguato agli interessi e alle capacità di socializzazione della persona. In modo particolare, è importante che le attività permettano una sana autostima e promuovano il mantenimento di una buona immagine personale. Attività realizzate attraverso materiale infantilizzante possono, ad esempio, essere vissute come umilianti e di conseguenza venire rifiutate.

La Stimolazione Cognitiva si configura quindi, come un intervento strategicamente orientato al benessere complessivo della persona, in modo da incrementarne il coinvolgimento in compiti finalizzati alla riattivazione delle competenze residue ed al rallentamento della perdita funzionale dovuta alla patologia.
Alla iniziale diffidenza del mondo scientifico per i trattamenti non farmacologici delle demenze si sta sostituendo, negli ultimi anni, un interesse crescente dovuto a due ordini di motivazioni. Innanzitutto, i limiti dell’efficacia farmacologia impongono un approccio clinico multicomponenziale, che abbia al centro non la guarigione (impossibile) del paziente, ma la cura (intesa come prendersi cura) della qualità di vita complessiva. In secondo luogo, l’evoluzione delle neuroscienze non ha fatto che incrementare i dati a sostegno del carattere plastico ed adattabile del sistema nervoso alle modificazioni interne ed esterne, comprese quelle dovute ad eventi traumatici o patologici. Per neuroplasticità si intende infatti la capacità del cervello di modificare la propria organizzazione strutturale ed il proprio funzionamento per adattarsi a nuove richieste.

Le demenze: diagnosi differenziale

Le principali forme di demenza diverse dalla malattia di Alzheimer:

Demenze Frontotemporali
Questo gruppo di demenze, che in fasi tardive o intermedie possono essere indistinguibili dall’AD, sono caratterizzare, in fase iniziale, dalla preminenza di disturbi comportamentali, affettivi e del linguaggio rispetto al deficit di memoria che può essere lieve o addirittura assente.
• Esordio: tra i 50 e i 60 anni;
• Eziologia: atrofia dei lobi frontali e temporali con perdita neuronale della corteccia e neuroni rigonfi.
1) demenza frontale: depressione atipica (no sensi di colpa, no manie suicide, diventano quasi “irraggiungibili”), compulsione, euforia, psicosi, ripetizione, aumento dell’appetito, irritabilità, ritiro affettivo, deliri somatici e di gelosia, agitazione, ritualità, superstizione. Lesioni al lobo deonto-orbitale causano maggior disinibizione; lesioni al lobo fronto-dorsolaterale causano maggior apatia.
2) malattia di Pick: è la più comune tra le demenze frontotemporali; i primi sintomi riguardano i cambiamenti di personalità (disinibizione, iperoralità, comportamento ossessivo-compulsivo), comportamenti motori anomali e difficoltà di giudizio critico. A questi seguono disturbi di memoria e di linguaggio (anomie), che marcano l’inizio della malattia con un declino significativamente più veloce rispetto all’AD. La PDC è caratterizzata da atrofia circoscritta nelle regioni fronto temporali con neuroni con una singola rotondeggiante intracitoplasmatica inclusione, chiamati “corpi di Pick” e neuroni “ballonuti” o “Cellule di Pick”. I criteri differenziali con l’AD sono presenza di demenza semantica e afasia lentamente progressiva (prominenti disturbi di linguaggio).

Demenze degenerative con segni di extra-piramidalismo
1) Morbo di Parkinson
• Esordio 70-80 anni;
• Eziologia: sconosciuta, ma probabilmente per la perdita neuronale della sostanza nigra;
• Epidemiologia: ¼ di tutti i casi di morbo di Parkinson presenta decadimento demenziale. L’incidenza è di circa il 5% per anno e raggiunge il 65% dei pazienti Parkinsoniani con più di 85 anni;
• Fattori di rischio: età, familiarità per la demenza, segni extrapiramidali, sviluppo di confusione e psicosi da L DOPA, compromissione motoria grave;
• Sintomi: tremori, rigidità, bradicinesia, rallentamento dei processi cognitivi, deficit attentivi e visuospaziali, fluidità verbale ridotta, problemi di denominazione, depressione, abulia.
2) Demenza con Corpi di Lewy:
• Esordio: tra i 65 e i 75 anni con rapporto uomo donna di 2:1;Sintomi: la demenza si accompagna sin dalle prime fasi a segni parkinsoniani (bradicinesia, rigidità, mentre il tremore a riposo è raramente presente). I segni cognitivi che, di norma, precedono i segni motori, assumono spesso le caratteristiche di un rallentamento nel pensiero e nell’azione e, rispetto all’Alzheimer, tendono a fluttuare in relazione alla vigilanza e all’attenzione, ma la progressione della malattia è più veloce.
Inoltre, in fase iniziale, sono frequenti i sintomi allucinatori, in particolare visivi, ben dettagliati e reiterati. Si sospetta questa malattia se la reazione ai neurolettici è buona.
• Neuropatologia: presenza di “corpi di Lewy” nei nuclei sottocorticali, nella corteccia e nell’ippocampo (a volte presenti anche in Parkinsone AD).
3) Paralisi Sopranucleare Progressiva:
La demenza complica nel 70-80% dei casi questa sindrome “parkinsoniana”, in cui sono sin dall’inizio preminenti i sintomi a carico dei movimenti oculari coniugati. In particolare, il segno caratteristico della turba della verticalità dello sguardo è spesso presente sin dall’esordio della malattia.
Criteri clinici: devono essere presenti decorso progressivo, esordio oltre i 40 anni, paralisi dello sguardo verso l’alto e anomalia verso il basso. Possono essere presenti: acinesia, anomalia della postura o del collo, scarsa o assente risposta alla terapia con LDOPA, disfagia o disartria,
Decadimento cognitivo precoce. Devono essere assenti: encefalite, sindrome dell’arto alieno, atrofia corticale frontale, allucinazioni, demenza precoce tipo AD.
4) Degenerazione cortico-basale:
Parkinsonismo con demenza sempre più diagnosticata; rispetto alla demenza con corpi di Lewy, i segni motori precedono la demenza e sono spesso unilaterali e l’aprassia precede anche di anni l’instaurarsi di un deficit cognitivo globale.
Segni e sintomi in ordine di importanza:
• mioclono focale (movimenti inconsulti di un arto);
• distonia di un arto;
• aprassia ideomotoria simmetrica;
• atrofia emisferica grave e asimmetrica al neuroimaging; parkinsonismo asimmetrico;
• assenza di disturbi di equilibrio e andatura.
5) Corea di Huntington:
• Esordio: 40-50 anni ma anche prima;
• Eziologia: atrofia del nucleo caudato e del putamen, a causa di un difetto genetico individuato a livello del 4° cromosoma;
• Sintomi: disturbi motori come scatti e mosse improvvise (prima alle mani poi agli arti e al collo, al tronco), rallentamento dei processi mentali, perdita delle capacità di giudizio e disturbi psichiatrici. I deficit cognitivi seguono quelli motori.

Demenze vascolari
Il termine “demenza vascolare” si usa, in realtà, per designare un ampio spettro di condizioni cliniche, tra cui infarti lacunari (demenza progressiva, deficit focali), singolo infarto in territorio vitale, infarti multipli (deficit con tipica progressione “a scalino”), demenza mista e infarti a carico della sostanza bianca.
• Esordio: può essere acuto o sub-acuto, ben databile, di solito accompagnato da sintomi neurologici. L’andamento dei disturbi è fluttuante;
• Decorso: progressivo con periodi di stabilità;
• Epidemiologia: è la cosiddetta “demenza del benessere”;
• Neuroimaging: evidenza alla TAC lesioni cerebrali di origine vascolare.

Demenze da agenti infettivi
Sono quelle demenze secondarie all’azione di batteri, virus o altri agenti patogeni, in grado di causare un danno al sistema nervoso centrale. Il grado di reversibilità del danno è strettamente correlato alla rapidità della diagnosi e alla tempestività dell’opportuno trattamento.
Malattia di Creutzfeld-Jacob o sindrome della mucca pazza:
• Esordio: 60 –70 anni (malattia rara);
• Eziologia: virus lento, resistente ai farmaci;
• Sintomi: astenia, difficoltà di concentrazione, depressione, deficit cognitivi che progrediscono rapidamente, fino a configurare uno stato vegetativo (entro 6 mesi il 50% dei malati muore);
• Segni associati: spesso mioclono, segni visivi o cerebellari, mutismo acinetico, complessi di onde lente periodiche nell’EEG, proteine 14-3-3 nel liquor e durata <2 anni.

Altre demenze
1) Demenze endocrine e metaboliche: secondarie a disfunzioni di sistemi o ad insufficienza cronica d’organo (renale, cardiaca, polmonare, epatica). Di notevole interesse per i rapporti con lo stress e l’attività riproduttiva, sono attualmente le forme di demenza endocrina legate a un’eccessiva attività dell’asse ipotalamo-ipofisi-cortico-surrene e ad una ridotta o assente attività dell’asse ipotalamo-ipofisi-ovarico, come nella fase post-menopausale.
2) Demenze carenziali: sindrome di Korsakoff e demenza alcolica, causate da insufficienza epatica succedanea ad alcolismo grave. La carenza di vitamina B12, oltre che manifestazioni neurologiche, può dare alterazioni cognitive anche importanti.
3) Demenze da agenti tossici: incluse quelle da piombo, arsenico, manganese, alluminio, pesticidi, solventi, farmaci (LDOPA), in grado di alterare lo stato di vigilanza e la memoria.
4) Demenze secondarie a neoplasie cerebrali: causate da processi espansivi endocranici, benigni o maligni. Primitivi o secondari. Alcuni sintomi sono direttamente connessi alla localizzazione del tumore, altri possono riconoscere come causa l’edema cerebrale.
5) Demenza da idrocefalo normoteso: fa parte di un quadro clinico caratterizzato da disturbi della marcia e incontinenza sfinterica; il deterioramento cognitivo non è precoce né grave, è a lenta evoluzione, fluttuante con tratti frontali.
6) Demenze da traumi cranici: deterioramento cognitivo diffuso, che fa seguito ad eventi traumatici chiusi di entità severa, associati a stato di coma iniziale. Si verifica una compromissione assonale diffusa con lesioni multiple, profonde, spesso microscopiche, determinate dallo strappamento di fibre nervose.


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